di Dario Ciccarelli
Il rapper napoletano Geolier, da Secondigliano, si è classificato al secondo posto nella edizione n. 74 (anno 2024) del Festival della Canzone italiana. Come noto, Geolier ha cantato in napoletano e il 60% di coloro che hanno partecipato al “televoto” ha votato per lui. Dopo il festival di Sanremo, il brano di Geolier è ascoltatissimo in tutti continenti ed è già entrato nel patrimonio musicale mondiale. L’interrogativo che si propone qui è il seguente: i talenti tipicamente napoletani, oppure sardi, oppure siciliani, oppure liguri, sono italiani, oppure no? E soprattutto, questi talenti meritano – o no? – di essere riconosciuti e valorizzati?
(Amadeus Geolier e l’Unità d’Italia)
Nelle 73 edizioni precedenti quella del 2024 il Festival della canzone italiana non consentiva di cantare canzoni completamente in “dialetto”. Secondo i regolamenti del Festival vigenti in passato – diciamo meglio: secondo l’approccio ai territori che l’apparato statale ha espresso in ambito musicale fino al 2024 – brani come “Napule è” e “Indifferentemente” erano ufficialmente classificati come estranei alla canzone italiana e alla cultura stessa. Il patrimonio canoro e culturale napoletano – e non solo napoletano – si propagava dunque, meravigliosamente, nelle case e nelle strade, ma, per lo Stato e per la Rai, restava confinato nel dominio del “sommerso”. Opera di briganti. Oggi, finalmente, per il regolamento del Festival si considerano appartenenti alla lingua italiana, quali espressione di cultura popolare, le canzoni in lingua dialettale italiana, “purché tali da non snaturarne il complessivo carattere italiano, sulla base delle valutazioni artistiche/editoriali del Direttore Artistico” [un plauso ad Amadeus dunque!]. Napoletani coraggiosi ce n’erano stati anche prima del 2024 e prima di Geolier, almeno in ambito musicale. Nel 1999 Nino D’Angelocantava a Sanremo “Senza giacca e cravatta”, contenente alcune frasi in napoletano; nel 2014 Rocco Hunt inseriva nel suo brano (“È ‘nu juorno buono”) il verso-manifesto “il mio accento si deve sentire”. Si narra che prima del 2024 lo stesso Geolier avrebbe dovuto partecipare al Festival di Sanremo cantando in napoletano e che l’organizzazione del Festival lo avesse vietato, ritenendo che 1 minuto e 15 secondi di canzone in dialetto fossero “troppi”. C’è chi si piega e chi non si piega, in ogni settore della vita.
Si narra che sia stato questo il commento, al tempo, di Geolier: “Tornerò su questo palco, ma con una canzone interamente in napoletano”. Portiamo rapidamente lo sguardo in altri ambiti. Nel 2013 Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/genovesi) titolava: “Genovesi. La rivincita dell’abate contro Adam Smith”, enfatizzando come l’Economia civile teorizzata dallo studioso napoletano Antonio Genovesi (accuratamente oscurato dall’Accademia ufficiale italiana) sia oggi al centro del mondo. Quanti altri – possiamo oggi chiederci, finalmente a schiena dritta e a voce alta – sono i geni napoletani disconosciuti dall’apparato e nascosti al mondo? Quanto male ha fatto alla cultura, all’Italia e al mondo la debolezza dei regnanti piemontesi, che, nel 1861, ben consapevoli della enormità del patrimonio culturale meridionale, hanno dovuto, pur di esistere, negare del tutto quel patrimonio, provando – senza riuscirci – a relegarlo nell’oblio, perseguendo la grigia prospettiva dell’uniformità? Illuminante Guido Melis, il massimo studioso della Pubblica Amministrazione italiana: “La riforma Cavour del 1853, l’atto primigenio fondatore dell’amministrazione sabauda prima e italiana poi, riprendeva il modello belga, a sua volta derivato da quello francese. Disegnava dunque un’organizzazione basata sui principi chiave dell’uniformità e della centralizzazione, di sicura derivazione napoleonica … L’amministrazione come macchina, la burocrazia come cieco apparato esecutore del comando della politica. dunque corpo obbediente, gerarchicamente subordinato, militarmente addestrato a eseguire… Negli anni Sessanta dell’Ottocento, a unificazione avvenuta, un colto funzionario di estrazione napoletana, Giuseppe Giannelli, avrebbe pubblicato (sia pure sotto pseudonimo) uno dei primi, violenti pamphlets contro il “piemontesismo”, denunciando il rigido formalismo dei regolamenti, l’attitudine all’obbedienza cieca e assoluta degli impiegati di Torino, la pretesa di esprimersi secondo formulari e frasi fatte, l’abitudine inveterata ad attendere istruzioni dall’alto e dal centro [Joseph pro domo sua (ma Giuseppe Giannelli), Storia di un periodo dell’amministrazione italiana, stab. Fratelli Jovene, Salerno, 1891]. Erede della tradizione amministrativa ma soprattutto della grande tradizione giuridica napoletana, il Giannelli non sapeva darsi ragione di un’amministrazione che, lungi dall’essere intelligente interpretazione delle leggi, si riduceva a pura e meccanica esecuzione.
Avrebbe finito, dopo un violento alterco su una questione di lingua, addirittura per sfidare a duello un collega piemontese: atto finale di una crisi personale che segnalava però il disagio dei funzionari non piemontesi della prima burocrazia postunitaria di fronte al freddo rigore della ‘piemontesizzazione’ ” (Guido Melis, “La costruzione di una burocrazia unitaria”, 1996). Nel 1923, con toni analoghi, così ammoniva il grande sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, fondatore del partito popolare: “Questo processo dinamico della realtà economica e amministrativa dovrebbe essere lasciato all’adattamento locale .. Invece l’Italia prese per modello la Francia, la Francia di Napoleone e la Francia repubblicana, dove la vita centralistica di Parigi assorbe e polarizza tutta la Francia, e dove la tradizione storica e l’ampio respiro economico assorbono le energie di provincia e spesso le annullano .. L’Italia non poteva trovare una misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua lunga linea dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare l’Inghilterra, non la Francia, e dare il dinamismo legislativo alle sue forze varie, non la forza statica dei suoi regolamenti” (“Il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno”, Luigi Sturzo, Napoli, 18 gennaio 1923). Oggi, cento anni dopo don Sturzo, grazie ai social, ai “televoto” e agli “onorevoli Amadeus” che pure ci sono, l’onda-Napoli si alza sempre più potente e l’apparato sembra finalmente rassegnato a riconoscere la grande e travolgente bellezza della diversità. L’umanità sorride, fotografa e applaude. Forza Napoli, sempre!
(Amadeus Geolier e l’Unità d’Italia)
Dario Ciccarelli: Dirigente Statale
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