Oggi a Gaza non sono morti soltanto cinque giornalisti. È morta un’altra parte della nostra coscienza collettiva. Mariam Abu Dagga, Mohammed Salama, Hussam al-Masri, Moaz Abu Taha e Ahmed Abu Aziz sono stati uccisi durante un bombardamento che ha colpito l’ospedale Nasser di Khan Younis. Cinque nomi che non possono rimanere solo numeri in una statistica di guerra: erano occhi, penne, voci che tentavano di raccontare al mondo ciò che molti preferirebbero non vedere. Non erano combattenti, non erano terroristi. Erano professionisti che hanno scelto di rischiare la vita per testimoniare l’orrore, per dare un volto ai bambini che muoiono sotto le macerie, per denunciare una tragedia umanitaria che non conosce tregua.
Colpire i giornalisti significa colpire la verità. Significa cancellare la possibilità stessa di comprendere ciò che accade. È un attacco diretto alla libertà di stampa, principio cardine di ogni società democratica. Senza informazione, senza cronisti disposti a raccontare, il mondo resta cieco e sordo di fronte all’ingiustizia. Quello che sta accadendo a Gaza non è soltanto un conflitto militare: è un crimine contro l’umanità, contro l’infanzia, contro il diritto alla parola e alla testimonianza. È una guerra che non combatte solo con armi e missili, ma anche con la censura e il silenzio.
Ogni volta che un giornalista viene ucciso, e noi restiamo in silenzio, diventiamo complici. Ogni volta che un bambino muore sotto le bombe, e noi distogliamo lo sguardo, consegniamo un pezzo di umanità al nulla. Non possiamo ridurre questa tragedia a una fredda cronaca: ciò che sta accadendo a Gaza interroga la coscienza di ciascuno di noi. La missione di chi racconta è più forte della violenza. I giornalisti caduti continueranno a vivere nel ricordo delle loro inchieste, nelle immagini che hanno trasmesso, nelle verità che hanno avuto il coraggio di urlare. Il loro sacrificio ci impone una responsabilità: non lasciare che la loro voce sia sepolta sotto le macerie.
Dagga, prima di morire, ha scritto qualche frase dedicata al figlio Ghaith, 12 anni. I due non si vedevano dall’inizio della guerra. «Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio».
Gaza è la ferita aperta del nostro tempo, e chi oggi resta in silenzio domani non potrà dire “non sapevo”.