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Napolitano: lingua da salvare

E in Italia? Lo Stato sabaudo, in osseguio al suo carattere centralista, ha negato in modo assoluto le specifiche identità

Il Seggio del Popolo - Locanda

Di Massimo Cimmino: Rubrica “L’Alfiere”

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Napolitano: lingua da salvare
Lingua e cultura sono elementi distintivi di ciascuna nazionalità ed affondano le loro radici in un patrimonio di storia e di tradizioni che appartiene in modo peculiare ad una comunità o ad un insieme di comunità che in quel patrimonio si riconoscono.
Non sempre la nazione riesce ad esprimere ed a conservare nel tempo anche una propria organizzazione politica. Accanto ai cosiddetti “stati nazionali”, formatisi specialmente in Europa nel corso del medioevo (Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia) o nell’età moderna (Grecia, Germania, Irlanda), la storia e l’attualità attestano l’esistenza delle cosiddette “nazioni senza stato”.

Tanti sono gli esempi che possono farsi al riguardo. Basti pensare ai baschi, ai catalani, ai corsi, ai curdi, ai ceceni, ai tibetani, ma anche – per guardare oltre oceano – alla nazione dei nativi americani (cd. Pellirosse). Altrettanti sono i casi di “nazioni senza stato”, che conservano come tali una loro precisa identità culturale e linguistica, ma che – per essere state inglobate per ragioni politiche in altre organizzazioni statali – questa identità vedono misconosciuta, se non addirittura negata.

È proprio il caso della nazioni napolitana, siciliana, veneta, ligure, emiliana, ed anche piemontese e lombarda, che da oltre un secolo sono state culturalmente e linguisticamente sacrificate sull’altare della cosiddetta “unità d’Italia”.
Ciò premesso, come ho ricordato in un precedente articolo , già diversi secoli or sono l’umanista Lorenzo Valla (Roma, 1407-1457) aveva sostenuto l’autonomia della lingua rispetto al potere politico, affermando che lingua e cultura superano la durata delle organizzazioni politiche e statali, la cui nascita e la cui scomparsa sono originate da mutevoli rapporti di forza.
Volgendo, infatti, lo sguardo ad alcune “nazioni senza stato„ in ambito europeo, vediamo come queste siano riuscite ad ottenere un riconoscimento – ove pieno, ove parziale – della loro identità, anche sul piano linguistico, da parte dei rispettivi stati di appartenenza.
Dal 1979 il Catalano è riconosciuto come lingua ufficiale, insieme al Castigliano, nella Comunità Autonoma della Catalogna, nella Comunità Valenciana e nelle Isole Baleari.

La lingua basca (“euskara„), che vanta antichissime origini preindoeuropee, è anch’essa riconosciuta, insieme al Castigliano, nei Paesi Baschi spagnoli e nel nord della Navarra, in virtù di quanto previsto dalla Costituzione spagnola del 1978 e dallo “Estatuto di Gernika„.
Passando alla Francia, l’Assemblea della Corsica, organo deliberativo della Collettività Territoriale della Corsica, nella seduta del 17 maggio 2013 ha attribuito al Corso il carattere di lingua coufficiale, insieme al Francese, attendendosene ora il riconoscimento da parte di Parigi ; mentre in Provenza la lingua Provenzale od Occitana (lingua d’Oc), pur se priva di carattere ufficiale, è presente nei toponimi e viene insegnata nelle scuole pubbliche.
Il Gaelico Scozzese (“Gàidhlig„), dal canto suo, dopo secoli di totale ostracismo decretato dagli inglesi, con decorrenza dal 13 febbraio 2006 è stato riconosciuto come lingua ufficiale della Scozia, unitamente all’Inglese.

E in Italia? Lo Stato sabaudo, in osseguio al suo carattere centralista, ha negato in modo assoluto le specifiche identità delle tante nazionalità via via inglobate al suo interno per motivi politici.
Tale atteggiamento ha raggiunto il culmine durante il ventennio fascista, causa l’accentuarsi della concezione nazionalista dell’Italia che ha caratterizzato quel periodo storico.
La Repubblica Italiana, a sua volta, si è trovata stretta tra due esigenze : da un lato, il bisogno di affermare la propria sovranità su quelle regioni che la Costituzione definisce “a Statuto speciale„ (Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia), pagando a tal fine un prezzo in termini di concessioni, anche sul piano linguistico ; dall’altro, la necessità di evitare spinte autonomiste da parte di altre nazionalità presenti al suo interno, alle quali pertanto ha negato e nega tuttora qualsiasi riconoscimento identitario.
Solo nel 1999, ad oltre quarant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, si è cercato di dare attuazione all’art.6 della stessa, che sancisce il principio della tutela delle minoranze linguistiche, mediante adozione della legge 482.
Si tratta, ovviamente, di un provvedimento “all’italiana„. Vediamo perchè.
L’art.1, comma 1, stabilisce che la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. Tale esordio esclude qualsiasi riconoscimento di coufficialità nei confronti di altre lingue. Tanto è confermato dal successivo comma 2, che parla solo di “valorizzazione„ delle stesse, e dall’art.7, comma 4, che, in presenza di atti bilingui destinati ad uso pubblico, attribuisce efficacia giuridica solo agli atti e deliberazioni redatti in lingua italiana.

Per quanto riguarda, poi, la delimitazione dell’ambito territoriale in cui si applica la tutela di ciascuna minoranza linguistica, l’art.3 della citata legge la attribuisce ai Consigli Provinciali, dunque a consessi nei quali prevale la volontà politica della maggioranza ! Ogni decisione in materia deve essere, inoltre, richiesta da tanti cittadini che rappresentino almeno il 15% degli elettori residenti nei Comuni interessati ovvero da un terzo dei Consiglieri di quei Comuni, rendendosi in difetto necessaria la pronuncia favorevole della popolazione residente a mezzo di apposita consultazione. Tale normativa risente, con tutta evidenza, del retaggio di quell’oppressivo centralismo di stampo sabaudo, che neppure i costituenti del 1948 hanno voluto o potuto lasciarsi alle spalle. Ma quali sono, in ogni caso, le minoranze linguistiche storiche oggetto di cosiddetta tutela?

Si tratta delle popolazioni albanesi, greche, catalane, germaniche, slovene e croate, e di quelle parlanti francese, franco-provenzale, friulano, ladino, occitano e sardo.
Nessuna tutela, come si vede, per le lingue parlate da altre nazioni presenti nel territorio della penisola, nazioni che è quanto meno improprio definire minoranze. Ma è forse proprio il dato numerico, oltre all importanza del patrimonio di storia e di tradizioni di tali culture, che preoccupa la Repubblica Italiana e ne condiziona la politica linguistica.

Una politica, questa, che discrimina, tra le altre, la lingua napolitana, che, pur nella diversità delle sue sfumature ed inflessioni, è tutt’oggi parlata da circa undici milioni di persone, in un’area che comprende l’Abruzzo, il Molise, il basso Lazio, la Campania, la Lucania, la Puglia e la Calabria settentrionale. Un atteggiamento politico che parimenti condanna la Sicilia ad essere l’unica Regione a Statuto Speciale che non vede riconosciuta la propria lingua.

Eppure il napolitano ed il siciliano sono lingue romanze derivate – al pari del toscano – direttamente dal latino.
Il Galiani, noto economista e letterato del settecento, fonda il primato del napolitano sulla presenza nella nostra lingua del maggior numero di vocaboli di immediata derivazione latina .
E recente conferma della assoluta veridicità della tesi del Galiani è stata data dalla traduzione in lingua napolitana del Vangelo di S.Marco
, che il Prof. Don Antonio Luiso ha curato direttamente dalla Vulgata, ossia dalla traduzione in latino della Bibbia dall’antica versione greca ed ebraica, realizzata, su incarico di Papa Damaso, da Sofronio Eusebio Girolamo (S.Girolamo), che ne era il segretario personale.

Eppure l’Unesco riconosce al napolitano la dignità di “lingua madre”, seconda solo all’italiano, quanto a diffusione, tra quelle parlate nella penisola, ed ha istituito la „“Giornata internazionale della lingua madre„, che cade il 21 febbraio di ogni anno .

Perché la Repubblica Italiana persiste in questo atteggiamento discriminatorio nei confronti delle lingue ancor oggi parlate in molti stati preunitari? Perchè ha paura. Perché, come la storia unitaria di questi ultimi centocinquant’anni dimostra, essa, al pari del Regno sabaudo che l’ha preceduta, è espressione di una “cultura debole„, cui fa difetto una sostanziale condivisione da parte della generalità dei cittadini, e che, per potersi imporre ad altre culture tuttora vive e radicate nei rispettivi territori, non può farlo se non ricorrendo – per citare il nostro amato Re Francesco II – “…alla violenza e all’usurpazione„, sia pure oggi ammantate da formale legalità.

E proprio dalla persistenza di tale politica può trarsi la conferma che la lingua napolitana è viva e vitale, al pari della Nazione di cui costituisce espressione.

Massimo Cimmino

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