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Il Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia

Rubrica settimanale a cura di Enrico Fagnano: Il Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia.
In questa rubrica ci ripromettiamo di esaminare le conseguenze dell’Unità sul nostro Mezzogiorno
e lo faremo attingendo a fonti d’epoca, certamente più attendibili di ricostruzioni fatte da autori
contemporanei, basate su affermazioni di principio indimostrate e indimostrabili, ma tramandate
da diversi decenni attraverso libri di testo, trasmissioni sulle reti nazionali o convegni organizzati
da istituto passivamente appiattiti su posizioni antistoriche. Prendiamo le mosse da un testo del
meridionalista avellinese Guido Dorso, che in Dittatura Classe politica e Classe Dirigente
(Einaudi, 1949) sintetizza efficacemente quanto accaduto dopo il 1860 e scrive:

‘Il primo atto della tragedia si aprì con l’unificazione del debito pubblico nazionale. Il Piemonte, il paese più tassato e
indebitato d’Europa, con un disavanzo annuo di cinquanta milioni ed un debito pubblico di 640
milioni, quattro volte superiore a quello dell’intero Regno di Napoli (in realtà, tenendo conto del
numero degli abitanti, il debito sardo risultava quasi cinque volte maggiore di quello delle Due
Sicilie), rovesciò sul nuovo Stato questo enorme carico finanziario. Si disse che tutta l’Italia aveva
obbligo di rimborsare le spese che il piccolo stato subalpino aveva sostenuto per finanziare
l’indipendenza nazionale, e non era vero perché il debito pubblico piemontese in massima parte
derivava da lavori pubblici, specialmente ferroviari.’

La spesa necessaria per i lavori di cui parla Dorso era stata rilevante e il regno sardo, che già da
tempo era in gravi difficoltà economiche, per fronteggiarla dovette contrarre ulteriori debiti.
Sembra difficile, però, immaginare che gli uomini del suo governo abbiano proceduto ad
un’operazione così impegnativa, senza tenere conto del passivo generale e quindi anche per
questo, oltre a tutto il resto (di cui poco per volta avremo modo di parlare) si può ritenere che già
all’epoca tra loro circolasse l’idea di annettere gli altri Stati italiani per poi attingere ai fondi nelle
loro casse, come poi in realtà accadde.

Su quanto detto sinora, ma anche sulla situazione in cui si trovavano il Regno delle Due Sicilie e il
Piemonte al momento dell’unificazione, è interessante questo passo tratto da Nord e Sud (Roux e
Viarengo, 1900) di Francesco Saverio Nitti. Ecco quello che il noto economista lucano dice: ‘Ciò
che è certo è che il Regno di Napoli era nel 1859 non solo il più reputato in Italia per la sua
solidità finanziaria – e ne fan prova i corsi della rendita, superiori a quelli dello stesso consolidato
francese – ma anche quello che, tra i maggiori Stati, si trovava in migliori condizioni. Scarso il
debito; le imposte non gravose e bene armonizzate; semplicità grande in tutti i servizi fiscali e
nella tesoreria dello Stato. Era proprio il contrario del regno di Sardegna, ove le imposte avevano
raggiunto limiti elevatissimi; dove il regime fiscale rappresentava una serie di sovrapposizioni
continue fatte in gran parte senza criterio; con un debito pubblico enorme, e a cui pendeva sul capo
lo spettro del fallimento. Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte
all’unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua (non dimentichiamo che la maggior
parte dei meridionalisti erano anche unitaristi, almeno fino all’epoca di Nitti), bisogna del pari
riconoscere che, senza l’unificazione dei vari Stati, il Regno di Sardegna per l’abuso delle spese e
per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento.

La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata tra il 1849 e il 1859 da una enorme quantità di lavori
pubblici improduttivi, aveva determinato una situazione da cui si poteva uscire se non in due
modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro Stato più grande.’
È da notare che anche in questo passo si riferisce come l’enorme debito pubblico piemontese fosse
collegato ai lavori pubblici effettuati, ma Nitti ci dice qualcosa in più rispetto a Dorso, definendoli
improduttivi. Si trattava, infatti, di lavori, che difficilmente seguivano il criterio dell’interesse
generale, essendo invece nella maggior parte dei casi collegati agli interessi dei gruppi di affaristi
(all’epoca noti come ‘consorterie’) al potere in quel momento. Questa fu una piaga che afflisse
anche la nuova Italia, incidendo tra l’altro in maniera drammatica sul debito pubblico nazionale, in

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particolare a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Ne parleremo approfonditamente (insieme
a tutto il resto) nei nostri prossimi appuntamenti.
Prima puntata. I libri di Enrico Fagnano IL SUD DOPO L’UNITÀ e IL PIEMONTESISMO E LA
BUROCRAZIA IN ITALIA DOPO L’UNITÀ
sono disponibili sul sito Bottega2Sicilie: CLICCA QUI
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