Camorra, Stato e società: una storia italiana irrisolta
La camorra non è un’anomalia della storia napoletana, né un semplice fenomeno criminale. È, piuttosto, una costruzione storica che nasce dall’intreccio ambiguo tra potere, Stato e società, e che attraversa l’Ottocento, il Novecento e il presente come una ferita mai realmente sanata. La camorra e l’unificazione italiana: l’ordine pubblico delegato. Il primo patto stato camorra
Nel 1860, durante il crollo del Regno delle Due Sicilie, Napoli vive una fase di vuoto di potere. In questo contesto emerge la figura di Liborio Romano, ministro di Polizia dell’ultimo governo borbonico e poi del governo provvisorio filo-sabaudo. Romano, nel tentativo di garantire l’ordine pubblico durante l’ingresso di Garibaldi e la transizione istituzionale, riconosce ufficialmente la camorra come forza di controllo del territorio, trasformandola di fatto in una milizia cittadina informale.
Capicamorra come Salvatore De Crescenzo, detto Tore ’e Crescienzo, vengono incaricati di mantenere la sicurezza urbana. È un passaggio cruciale: lo Stato nascente, invece di smantellare i poteri criminali, li co-opta, legittimandoli socialmente. La camorra diventa così un intermediario tra popolazione e autorità, radicando l’idea che l’illegalità possa essere una funzione del potere.
Questo modello — già visto in altre realtà europee — segna Napoli in modo duraturo: l’ordine non nasce dalla legge, ma dal compromesso. Dura ancora oggi.
Dallo Stato unitario al fascismo: tolleranza e marginalizzazione
Tra fine Ottocento e primo Novecento, la camorra subisce fasi alterne di repressione e tolleranza. Il processo Cuocolo (1911–1912), celebrato come grande vittoria dello Stato liberale, colpisce duramente i clan storici, ma non elimina il fenomeno. Piuttosto, lo spinge verso forme meno visibili.
Durante il fascismo, come per la mafia siciliana, la repressione è selettiva e funzionale al controllo politico. La camorra viene indebolita ma non sradicata, mentre le condizioni sociali — povertà, disoccupazione, esclusione — restano immutate.
Quindi anche con uno stato molto forte, se non elimini il terreno fertile, il fenomeno si rimpicciolisce ma non si elimina.
Il secondo dopoguerra e l’asse con Cosa Nostra
È dopo la Seconda guerra mondiale che avviene un altro passaggio decisivo. Nel caos del dopoguerra, ciò che resta delle famiglie camorristiche più strutturate viene progressivamente assimilato nei circuiti della mafia siciliana, soprattutto attraverso il contrabbando, il mercato nero e, successivamente, il traffico internazionale di stupefacenti.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Napoli diventa un nodo logistico fondamentale. La camorra perde una struttura unitaria e autonoma, ma acquisisce una dimensione imprenditoriale e transnazionale, spesso in connessione con Cosa Nostra e, più avanti, con la ’ndrangheta. Verrà eliminata la guapparia ed il nuovo sistema fa capo a logiche strutturate ed internazionali dove le zone d’ombra sono molteplici a partire dai servizi segreti che spesso per infiltrare da queste organizzazioni finiscono anch’essi per essere infiltrati e storicamente è capitato che gli interessi si fondono.
Gli anni Settanta e Ottanta: Cutolo e la guerra totale
Con Raffaele Cutolo e la Nuova Camorra Organizzata, la camorra torna a proporsi come soggetto politico-criminale autonomo. Cutolo costruisce un sistema fondato su identità, ritualità, welfare criminale e controllo capillare delle carceri. È una risposta violenta al vuoto sociale dello Stato, ma anche una sua deformazione.
La guerra tra NCO e Nuova Famiglia provoca centinaia di morti, segna interi quartieri e consolida un modello di potere fondato sulla violenza diffusa. Alla sconfitta di Cutolo non segue però una rinascita civile: segue una frammentazione estrema. Si afferma il dominio di cosa nostra campana.
Dalla frammentazione alle guerre di territorio
Dagli anni Novanta in poi, la camorra diventa un arcipelago di clan. Le guerre di Secondigliano, Scampia, Ponticelli, Torre Annunziata producono lo stesso risultato: migliaia di vittime dirette e indirette, economie illegali che si sostituiscono a quelle legali, generazioni cresciute nella normalizzazione della violenza.
Restano cocci.
Restano vite spezzate, famiglie distrutte, una società segnata dal tempo lungo della malavita.
Una domanda necessaria: e se fosse andata diversamente?
Di fronte a questa storia, una domanda s’impone, scomoda ma necessaria:
se quel coraggio, quelle intelligenze, quelle capacità organizzative fossero state messe al servizio del bene invece che del male, cosa sarebbero potuti diventare quegli uomini e queste donne?
Non si tratta di assolvere, ma di comprendere. La criminalità organizzata prospera dove lo Stato abdica, o dove lo stato “SOSTIENE” le mafie, dove non esistono percorsi di riconoscimento, lavoro, appartenenza ideale e filosofica. Nel nulla, prospera il male. Nel nichilismo la spiritualità diventa liturgia, le idee diventano scopi e vivere la propria vita diventa sopravvivere agli altri.
Le seconde possibilità come scelta politica di un modello vincente che toglie ossigeno alle organizzazioni di clandestinità.
Esempio quartieri spagnoli, un quartiere ultra popolare dove moltissimi giovani cadevano nella trappola malavitosa ed oggi invece in tantissimi si sono dedicati ad attività legali ed edificanti. Il male esiste ancora, certo, ma è una strada che lo spontaneismo napoletano ci ha mostrato e che dobbiamo seguire ed inseguire per ogni quartiere di Napoli.
Credere nelle seconde possibilità non è buonismo. È realismo storico. È cinismo sociale. L’uomo è come il vino, se lo lasci nel suo brodo fermenta, se lo.lasci fermentare in un eremo potrebbe avere il sapore di un santo ma se lo lasci in carcere o in qualsiasi fogna esce fuori, più criminale di prima.
Napoli, ma il mondo più in generale, non può essere sanato solo con la repressione, né con la retorica emergenziale, come hanno fatto i ben pensanti in Campania e in tutto il sud. Serve un progetto che tolga ossigeno alla cultura malavitosa, prima ancora che ai clan. Non vanno tagliati i rami ma va fatto sparire il terreno dove le radici affondano.
Domani sarò a san Pietro a Patierno per dare solidarietà a quella pizzeria che hanno fatto saltare in aria, non si sa ancora chi è stato e perché ma si deve sapere subito che la Napoli nata per fare il bene è presente. Sempre.
Occorre costruire una logica sociale ed economica in cui vivere legalmente non sia un atto eroico, ma una scelta naturale. In cui ogni individuo possa diventare risorsa della comunità, e non manovalanza del crimine. Per fare questo bisogna avere giustizia sociale e non stupide regole che incattiviscono la società, ci vuole un lavoro umano, sulle coscienze, estirpare il male con un esorcismo. Non sarà il rispetto dei divieti di sosta o mettere il casco a salvarci e salvare generazioni di potenziali malavitosi ma un sistema più equo ed includente per tutti.
Sanare Napoli oggi, significa, spezzare il ciclo storico che ha trasformato l’illegalità l’unico destino possibile.
Significa offrire appartenenza senza violenza, potere senza criminalità, dignità senza sangue. Napoli oggi può rappresentare un esempio per chi ha voluto trasformare la sua vita da mala-vita a vita per fare il bene, bisogna essere un modello nuovo, rappresentare l’occasione unica ed inevitabile di fare della propria vita un’opera e non essere più un’operazione ad uso e consumo di qualcuno.
Questa è l’unica vera alternativa.
Ed è, finalmente, una responsabilità comunitaria.
Le fonti ppe chi scassa ‘o sasicce.
bibliografiche (Barbagallo, Lupo, Dickie, Sales).

















