Antonio Caputo è uno di quegli imprenditori che non separano mai l’azienda dalla visione del mondo. Cavaliere, fondatore e proprietario di Enodelta, voce storica dell’area identitaria meridionale, Caputo parla con l’urgenza di chi sente che il Sud non può più limitarsi a raccontarsi, a commemorarsi o a “resistere” solo a parole. Enodelta, in questo senso, è la sua risposta concreta: un’impresa vinicola nata senza scorciatoie, costruita con lavoro e ostinazione, capace di portare nel mercato un’idea precisa di Mezzogiorno, non come periferia produttiva ma come territorio che può stare nel mondo preservando la propria identità, trasformando la qualità in reputazione e la storia in forza commerciale.
Nelle sue dichiarazioni, Caputo non si ferma al racconto aziendale, ma allarga il campo al meridionalismo (parola che non piace a molti) contemporaneo, che giudica spesso prigioniero di un vizio antico: analizzare tutto, indignarsi a cicli alterni, e poi restare immobili. Il punto, per lui, non è tanto la mancanza di intelligenza o di memoria storica, quanto l’incapacità di diventare protagonisti, soprattutto nelle scelte quotidiane, nei consumi, nel modo in cui si fa impresa, nel modo in cui ci si rappresenta politicamente, perché a suo avviso il Sud continua a comportarsi da colonia anche quando avrebbe gli strumenti per smettere.
«Dopo quarant’anni di esperienza ho capito una cosa semplice: noi non riusciamo a fare un vero partito politico del Sud, non ci votano», dice Caputo, ricordando tentativi passati come quello della “Lega Sud”, nato non per imitazione, ma per reazione a un clima in cui il Mezzogiorno fu insultato apertamente. «Eppure è successo una cosa paradossale: dopo anni è bastato togliere la parola “Nord” dal simbolo, e una parte dei meridionali ha votato lo stesso. Questo ti fa capire quanto siamo condizionati, quanto ci manca la lucidità di scegliere in base al nostro interesse reale».
Caputo sostiene che uno degli inganni più duri da scardinare sia quello culturale, cioè l’idea che il Sud sia “naturalmente” inferiore, arretrato, incapace. «Non è una questione di razza o genetica, è evidente. C’è stato qualcosa. Perché appena 150 anni fa qui si facevano primati, cose documentate, e oggi nei libri di scuola sembra il contrario, sembra che fossimo solo arretratezza. È un paradosso. E allora o è successo un miracolo al contrario, oppure ci hanno educato alla minoranza».
Quando gli si chiede cosa abbia contribuito davvero al risveglio identitario, la risposta spiazza, perché non arriva dall’orgoglio interno, ma dall’offesa esterna. «Paradossalmente la Lega ci ha aiutato, indicato. Quando ti dicono “brutti, sporchi e cattivi”, qualcuno che ha un minimo di attenzione si chiede: ma davvero? E se non è vero, perché oggi ci comportiamo come se lo fosse? Nasce la domanda vera. Il problema non sono quelli che ti insultano, il problema è il meridionale che si sente colonizzato e si accontenta di esserlo».
È su questo nodo che Caputo attacca la parte del meridionalismo che, a suo dire, si è trasformata in una comfort zone, una postura, un’identità senza conseguenze. «Il peggior nemico sono i nostri meridionalisti che sanno e però continuano a fare i coloni, i servi dell’Italia, quelli che non vogliono diventare protagonisti. Io non mi sento niente di meno rispetto a un imprenditore vinicolo del Nord, né come capacità né come dignità».
L’intervista entra così nel terreno economico, quello dove la retorica spesso crolla, e dove per Caputo si misura la vera coerenza di un popolo. «Il Comprasud è importantissimo, ma la tragedia è che spesso i nostri conterranei aiutano prima quelli del Nord che noi stessi. È una cosa che ho visto mille volte. Ci piangiamo addosso, poi però andiamo a finanziare chi sta fuori, come se fosse normale». E qui arriva una proposta concreta, quasi chirurgica, lontana dal folklore identitario: «Se noi spostassimo anche solo il dieci per cento dei consumi da imprese con sede legale al Nord a imprese con sede legale al Sud, risolvemmo una quantità enorme di problemi. Molti figli rimarrebbero qui, perché la prima politica industriale è dove metti i tuoi soldi ogni giorno».
È in questo passaggio che Enodelta non è più solo un nome, ma diventa un caso emblematico: impresa come atto di sovranità economica, vino come prodotto globale che però non rinuncia alla radice. Antonio Caputo, infatti, non rifiuta la globalizzazione, la considera inevitabile e persino utile, ma a una condizione. «Il mondo globalizzato io lo accetto, perché no, però preservando le identità, rispettando le identità dei popoli. Si può fare. Il problema è che qui l’omologazione spesso diventa sudditanza, e il Sud finisce per consumare e celebrare ciò che arriva “da sopra”, mentre svaluta ciò che nasce “da sotto”».
E quando si tocca il tema dell’Unità d’Italia, Caputo non usa mezze misure, ma lo fa nel registro dell’opinione politica e culturale, non della sentenza storica. «L’Italia si poteva fare in modo più civile. Non “unità”, ma “unione”. L’unità è annessione. L’unione è confederazione, è rispetto delle identità. Come la Svizzera, come altri modelli. E oggi quel discorso, almeno come progetto politico, qualcuno al Nord lo porta ancora avanti con l’autonomia differenziata, mentre noi al Sud restiamo divisi anche nel modo di nominarci».
Il riferimento alle regioni come costruzione identitaria “calata dall’alto” entra nella stessa logica: non come lezione accademica, ma come denuncia di un effetto pratico, cioè la frammentazione. «All’estero quando arrivavano i miei prodotti, “campani” non significava niente. Napoli la conoscono, il Sud lo capiscono, ma quella categoria lì spesso serve più a dividerci che a unirci». E da qui la stoccata al vocabolario stesso, perché anche le parole, per Caputo, costruiscono obbedienza. «Già la parola “Mezzogiorno” mi pesa. Sembra un modo per dire che siamo sempre metà giornata, sempre incompleti, sempre dopo».
Il passaggio più duro arriva quando si parla di servizi pubblici e infrastrutture, perché qui Caputo non ragiona per teoria, ma per esperienza diretta, raccontando episodi che, nel suo racconto, somigliano a un sistema che mantiene strutture accese e apparati attivi, ma non garantisce la risposta essenziale al cittadino, e così la sfiducia si trasforma in rassegnazione. «Chi può si assicura e paga due volte, chi non può restare scoperto. E questo è un meccanismo che ammazza la dignità prima ancora dell’economia».
A quel punto, la domanda inevitabile diventa: se la politica non funziona, se il Sud non si riconosce in una rappresentanza propria, quale strada resta. Caputo lancia un’idea che definisce lui stesso “utopica” e che presenta anche come provocazione mediatica, ma che ha un obiettivo preciso: rompere il silenzio, costringere a una scelta di posizione. «Io direi: facciamo un comitato referendario per l’autodeterminazione, della Nazione delle Due Sicilie o della Nazione napoletana. Servono firme, tante, cinquecentomila. Magari non ci riusciamo. Ma servire per mettere il tema sul tavolo, per provocare, per alzare la testa. E soprattutto per unire coscienze diverse, perché qui non è più destra o sinistra, è Sud e Nord, è colonia e centro».
Infine, quando gli si chiede cosa lasciare ai giovani meridionali, Caputo torna lì dove tutto si chiude, cioè nell’etica del fare, che per lui è l’unica risposta possibile alla minoranza appresa. «Orgoglio, dignità, maniche rimboccate. Niente assistenzialismo, niente posto fisso sognato come salvezza. Io mi sono creato da solo la mia attività, senza capitali, senza aiuti, senza esperienza, e l’esperienza me la sono fatta facendo. E quindi, se l’ho fatto io, lo possono fare altri. Basta crederci ed essere audaci». Poi la frase che sembra un colpo di martello contro l’Italia dei progetti eterni. «I progetti sono validi solo quando diventano realtà. Se progetti sempre e non realizzi mai, resti fermo. E il Sud, da 150 anni, spesso resta fermo anche mentre parla di movimento».
Nel quadro che emerge, Antonio Caputo non chiede adesioni emotive, chiede una cosa più difficile: coerenza. Perché la battaglia identitaria, nella sua visione, non si vince con i simboli, ma con una mentalità che cambia e con scelte quotidiane che smettono di alimentare la dipendenza. Enodelta resta il suo esempio più concreto: impresa meridionale che non chiede permessi per esistere, ma pretende rispetto per ciò che produce, e che nel vino prova a dimostrare una tesi più grande. Il Sud non ha bisogno di essere compatibile, ha bisogno di ricordarsi che può essere protagonista, a patto di smettere di raccontarsi come colonia e iniziare a comportarsi come nazione economica e culturale.















