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Rita De Crescenzo e non solo. TikTok e il lato oscuro dei social: sfoghi, denuncia, fango e un’emergenza invisibile

BCC

Di fronte a certe parole, anche il dubbio diventa dovere. Le dichiarazioni rilasciate da Rita De Crescenzo in una diretta sui social, nelle scorse ore, meritano attenzione. Non tanto per la loro attendibilità — che spetterà ad altri eventualmente verificare — quanto per il carico simbolico e sociale che portano con sé. In un video, De Crescenzo parla apertamente di “sequestro di persona” avvenuto — secondo la sua versione — ad opera di un comandante dei carabinieri a Castel Volturno, che avrebbe portato via suo figlio minore da una casa famiglia. Poi, aggiunge un particolare ancor più inquietante: nella stessa struttura, una pistola sarebbe stata messa sul tavolo per farla toccare al ragazzo, all’epoca quindicenne.

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Lo sfogo arriva dopo le critiche del deputato Francesco Emilio Borrelli, ma la domanda — al di là del confronto personale — apre uno squarcio su un mondo che resta troppo spesso nell’ombra. Quello dei social, di TikTok in particolare, dove ogni giorno milioni di utenti si raccontano, si sfogano, si accusano, si insultano, si annientano. E dove, sempre più frequentemente, emergono storie che parlano di estorsioni, ricatti, vendette digitali , denunce che appaiono a tratti grottesche, a tratti agghiaccianti. Si tratta di vaneggiamenti? Frutto di personalità fragile, instabile, in cerca di attenzione? Oppure siamo davvero di fronte a un nuovo livello di criminalità, più sottile e infido, che passa per la monetizzazione della visibilità e l’uso strumentale dei sentimenti, dei bambini, del dolore?

TikTok, piattaforma nata come gioco, è diventata una macchina di potere, soldi e violenza comunicativa. Alcune “pagine” valgono migliaia di euro, si parla di profili rubati, di ritorsioni tra creator, di case famiglia tirate in ballo, di minori usati come leva emotiva o come merce da scambiare. Il tutto davanti a un pubblico distratto o divertito, mentre le istituzioni restano spesso immobili, le famiglie inermi, ei servizi sociali sovraccarichi.

La verità è che ci troviamo nel mezzo di un’emergenza psicocollettiva, un’epidemia di esposizione compulsiva, di dipendenza dalla visibilità, di ludopatia da like. Persone fragili, spesso già segnate da storie di disagio, trovano sui social uno spazio per esistere. Ma a che prezzo? E chi paga, se non i minori coinvolti, spettatori e vittime di dinamiche che li travolgono prima ancora che possano capirle?

Siamo davanti alla più grande macchina del fango mai vista, in cui tutto e il contrario di tutto viene detto, dove la verità diventa un’ombra che fugge e la giustizia un eco lontano. Nessuna certezza, solo la consapevolezza che il rischio maggiore è l’indifferenza. Davanti a questo scenario, non possiamo non provare un misto di pietà, rabbia, pena, schifo, compassione. È forse solo da quest’ultima — la compassione autentica — che può nascere la forza di fare chiarezza, di riportare dignità a chi l’ha persa, o non l’ha mai avuta.

Ma nel frattempo, a essere schiacciati sono sempre loro: i bambini, gli adolescenti, coloro che non hanno ancora gli strumenti per difendersi. Diventano merce nei conflitti tra adulti, strumenti di vendetta o leva di ricatto. La fragilità diventa spettacolo, il dolore si trasforma in algoritmo, la disperazione in una storia da monetizzare.

È qui che si rende necessaria una riflessione collettiva, anche scomoda. Chi tutela oggi i soggetti deboli dai nuovi predatori digitali? Chi controlla ciò che avviene nei meandri più bui delle piattaforme? Possibile che ci si accorga solo quando ormai è troppo tardi, quando l’ennesimo “caso” esplode, rimbalzando tra i feed per qualche ora, prima di finire dimenticato sotto un altro video virale?

Forse è giunto il momento di fermarsi. Di chiederci se, davvero, tutto questo è normale. Di interrogarci sul senso della visibilità a ogni costo, sulla giustizia urlata a colpi di dirette, sulle ferite che si mostrano in pubblico nella speranza di un risarcimento che spesso non arriva mai. Siamo ancora in tempo per cambiare rotta?

La risposta non è in una singola persona o in una singola denuncia. Ma nel coraggio collettivo di rifiutare il fango, di pretendere trasparenza, rispetto, cura. Di credere che anche nei tempi più bui, la verità — quella autentica — può ancora avere voce.

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