Home Attualità La bilancia dell’indecenza: quando lo Stato “emula” la criminalità

La bilancia dell’indecenza: quando lo Stato “emula” la criminalità

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di Alessandro Casillo
Le parole vibranti e cariche di indignazione che precedono questo articolo sollevano un interrogativo scomodo, un parallelo stridente tra due mondi apparentemente agli antipodi: lo Stato e la criminalità organizzata. Un confronto che, letto tra le righe del malcontento popolare, dipinge un quadro inquietante di responsabilità e di costi scaricati sulla collettività.

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Da un lato, la criminalità “classica” presenta un conto salato, pagato in prima persona da chi sceglie di intraprendere quella strada e dalle sue vittime dirette. Le conseguenze delle azioni criminali si manifestano con la privazione della libertà, con la violenza subita o inflitta, con un’esistenza spesso ai margini e con la costante minaccia della giustizia. È un sistema brutale, certo, ma con dinamiche di responsabilità individuali, seppur distorte.

Dall’altro lato, emerge un’ombra più subdola e pervasiva: quella di una “criminalità in colletto bianco”, annidata nei palazzi del potere. Qui, gli errori, le negligenze e persino le azioni corruttive non vengono pagate direttamente da chi le commette. Al contrario, il peso di decisioni scellerate, di sprechi, di malaffare e di privilegi auto-concessi ricade interamente sulle spalle dei cittadini.

Le pensioni d’oro, i vitalizi, la corruzione endemica, il business sulla salute, le infrastrutture fatiscenti, la precarietà del lavoro, l’impunità dilagante: sono solo alcune delle “indecenze” elencate nella premessa, che rappresentano un costo sociale ed economico enorme, pagato quotidianamente da chi lavora, da chi si ammala, da chi subisce le conseguenze di una gestione deficitaria del bene pubblico. In questo scenario, la politica, che dovrebbe essere garante del benessere collettivo e della legalità, si ritrova paradossalmente a operare con meccanismi che la pongono, in termini di impatto negativo sulla vita dei cittadini, su un piano pericolosamente vicino a quello della criminalità. La differenza sostanziale risiede nel fatto che il malvivente “paga sulla propria pelle” le sue scelte, mentre il politico corrotto o negligente fa pagare il conto alla società intera.

Questa dinamica solleva una questione morale fondamentale: con quale autorità una classe politica gravata da simili “indecenze” può ergersi a giudice implacabile della criminalità? Se la corruzione è una forma di furto ai danni della collettività, se l’omissione di interventi necessari causa morti evitabili, se le leggi vengono piegate per interessi particolari, non ci troviamo forse di fronte a forme di “delinquenza” istituzionalizzata, che pur non imbracciando armi, feriscono e impoveriscono un intero paese?

L’affermazione provocatoria secondo cui la politica “può essere delinquente essendo corrotta o uccidere con le leggi” è un grido disperato che evidenzia come le decisioni prese nei palazzi del potere possano avere conseguenze ben più vaste e devastanti delle azioni di un singolo criminale. Un ponte che crolla per incuria non è forse un “omicidio colposo” di Stato? La mancanza di fondi per la sanità che nega cure vitali non è forse una forma di violenza silente?

Il silenzio assordante della politica di fronte a drammi sociali ed economici, contrapposto alla retorica indignata su temi di comodo, non fa altro che alimentare questo senso di ingiustizia e di sfiducia. Sventolare la bandiera in momenti opportuni non cancella le responsabilità passate e presenti, né lenisce le ferite di un popolo che si sente tradito e dimenticato.

La storia, come ammonisce la voce popolare, sarà il giudice severo di questa “indecenza” diffusa. Un’indifferenza che serpeggia tra i cittadini, stanchi di promesse vane e di un sistema che sembra tutelare più i privilegi di pochi che i diritti di molti. La bilancia dell’indecenza pende pericolosamente, e il confine tra chi giudica e chi viene giudicato si fa sempre più labile e confuso.

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